Robert O. C. Kelly

Codex Egregorium

Copertina

Nel cuore di Roma, una rete di catacombe antiche come la città stessa si rivela il fulcro di una serie di morti oscure, inspiegabili e brutali. Alberto, Claudio e Saverio, amici legati da un profondo interesse per l'esoterismo e una solida amicizia, si ritrovano inaspettatamente coinvolti in un mistero che si snoda nelle viscere segrete di Roma. Tra antichi simboli cristiani e segreti sepolti, i tre scoprono connessioni con figure di spicco e insospettabili del Vaticano, le cui azioni sembrano manipolare eventi mortali dall'ombra.
Ignorati dalla polizia che attribuisce le loro testimonianze a stress post-traumatico, il trio si imbarca in una corsa contro il tempo per scoprire la verità. La loro indagine li porta a decifrare criptici enigmi e a interrompere cerimonie oscure, che potrebbero essere la chiave per fermare una serie di omicidi ritualistici destinati a ripetersi. Alberto, Claudio e Saverio si lanciano in una disperata corsa contro il tempo per svelare la verità. In questo viaggio, attraverso luoghi sacri e angoli nascosti della capitale, i pericoli sono ovunque e ogni scoperta porta con sé nuove, inquietanti domande.
“Codex Egregorium” è un thriller esoterico che intreccia suspense, misticismo e avventura, conducendo i lettori a immergersi nei misteri più oscuri e arcani di Roma. Mentre i protagonisti cercano di mantenere salda la loro alleanza, la tensione cresce: chi riuscirà a sopravvivere alla rivelazione finale? E cosa scopriranno realmente sui legami tra il sacro e il profano, mentre cercano di fermare un'antica forza malevola che minaccia di riemergere e consumare tutto sul suo cammino?

Estratto



Capitolo 1. La fede

Roma, anno 306 d. C.

La notte con l’intensità di un mantello opaco e impenetrabile, avvolgeva già da diverse ore il quartiere di Suburra, un dedalo di vicoli bui e tortuosi che si snodavano ai piedi del Palatino. Le lucerne a olio, sparse qua e là, proiettavano ombre giallastre sulle case di mattoni. Il silenzio era rotto solo dal fruscio delle toghe che sfioravano le mura scrostate. L’oscurità offriva un velo di protezione ad un piccolo gruppo di individui che si aggirava per le strade con passo cauto. La luna, una falce argentea nel cielo terso, illuminava i loro volti ansiosi. Le casette di Suburra si ammassavano l’una all’altra, come se cercassero protezione nella loro stessa vicinanza. Le porte di legno, spesso sgangherate, scricchiolavano al vento notturno. Le finestre, prive di vetri, erano coperte da rozze imposte di legno che lasciavano intravedere la luce fioca di un focolare domestico. Arrivarono nei pressi di una modesta abitazione situata in uno dei vicoli più remoti del quartiere. Era una costruzione di due piani, con un’unica porta d’ingresso e due piccole finestre al primo piano. La facciata era scrostata e coperta di muschio. Una piccola insegna di legno, con la scritta “Taberna Julia”, indicava che al piano terra si trovava una modesta osteria. «Sicuramente è questa la casa di San Clemente», sussurrò una voce di donna che a malapena era udibile. «Guarda», proseguì, rivolgendo l’attenzione al compagno che le stava a fianco, «i simboli del pesce, dell’alfa e dell’omega, proprio come Titus ci aveva indicato.»
Il suo volto, teso nell’oscurità, era solcato da profonde rughe che si formavano sulla fronte, mentre con occhi sgranati perlustrava le ombre che la circondavano, in allerta per evitare incontri indesiderati. Un ampio mantello scuro l’avvolgeva, fondendola quasi completamente con le tenebre circostanti, rendendola una con la notte. Solo una croce di metallo, stretta tra le sue mani giunte, brillava debolmente alla luce fioca della luna, che illuminava tegole e lastricati, disegnando un paesaggio di contorni sfumati, scenario di una incolmabile fede.
La quiete quasi surreale della notte venne interrotta solo dal canto distante di un gallo, un suono che sembrava provenire da un altro mondo e che si opponeva alla staticità della città addormentata, mentre un odore di umidità e di muschio saliva dalla terra umida.
Il leggero fruscio di foglie secche sotto i loro piedi li fece sobbalzare, i loro cuori battevano con forza nel petto. «Avanti, ragazzi.» Li incitò il padre, rivolgendosi ai tre fanciulli che stavano con loro aggrappati alla gonna della madre. «Rimanete qui davanti a noi e non vi muovete.» Le sue parole, furono pronunciate sottovoce, quasi sussurrate, mentre si avvicinavano al modesto edificio nascosto in un vicolo appartato. L’ingresso, a quel luogo ritenuto sacro e fonte del loro conforto, dissimulato nella notte, era poco più che una fessura malcelata dall’ombra nel retro della casa, quasi inghiottita dall’oscurità circostante. Con gesti conosciuti, bussò alla porta: tre colpi seguiti da una breve pausa, poi altri due. Un segnale, il codice convenuto, un linguaggio silenzioso che comunicava la presenza di fedeli alla porta di quel luogo che doveva rimanere segreto. Era una prassi necessaria, un salvacondotto attraverso il quale si cercava di sfuggire a occhi indiscreti e orecchie troppo attente, un passaggio verso la sacralità nascosta dietro la semplicità di quel muro.
La piccola porta si aprì con un lieve fruscio, un sorriso caldo li accolse. «Benvenuti fratelli», disse una voce calda e profonda, «entrate nella casa del Signore.» A quelle parole, la donna fece cenno ai propri figli di entrare per primi, poi chinandosi, anch’essa varcò la soglia seguita dal marito.
Una volta all’interno, furono avvolti da un’ondata di calore e da odori familiari. Una parte del pianterreno era occupata da una taverna con tavoli di legno grezzo, panche e sgabelli.
Nella sala ricavata sul retro, dove aveva trovato rifugio la famiglia, un fuoco guizzante ardeva nel piccolo camino in pietra, diffondendo una luce calda e rassicurante che rischiarava alcune panche di legno disposte ordinatamente.
Davanti al focolare, una croce di legno grezzo era appoggiata alla parete, quasi a vegliare sui fedeli convenuti in quella piccola dimora trasformata in luogo di culto. Un drappo rosso con il simbolo del Cristogramma pendeva sopra la croce, richiamando il sacrificio di Cristo.
Nell’angolo più raccolto, un piccolo altare, anch’esso di legno, attendeva le offerte e le preghiere per il solo vero Dio. Davanti ad esso ardeva una fiamma perenne, custodita dai membri della comunità a turno, come simbolo della luce di Cristo sempre accesa.
L’atmosfera era pervasa dai profumi di legna bruciata, olio per le lampade e dell’incenso usato durante le funzioni. Un luogo umile ma carico di spiritualità, dove i seguaci del Cristianesimo potevano riunirsi e pregare al riparo dalle persecuzioni. In quel momento, si sentirono immersi nell’abbraccio caldo e sicuro della loro comunità. La fioca luce di lampade a olio illuminava volti familiari, tutti animati da una fede incrollabile. Un senso di pace e di conforto pervadeva l’ambiente, un rifugio sicuro.
Le lacrime le rigarono il volto mentre si inginocchiava, il freddo della pietra contro le ginocchia si mescolava al calore delle sue emozioni. La sua fede era forte, la sua speranza incrollabile. In quell’oscurità, tra le mura di quella domus ecclesiae, trovarono la forza per perseverare e continuare a professare la loro fede.
Un sussurro di preghiere si levava nell’aria, mescolandosi al fruscio delle vesti e al crepitio delle lampade. La donna chiuse gli occhi concentrandosi sulle parole sacre e sentendo un senso di profonda comunione con Dio. In quel momento, le tenebre della notte non erano più un ostacolo, ma un velo che proteggeva la loro fede e la loro speranza.
Un’aura di pace e raccoglimento avvolgeva il modesto luogo di culto, mentre le fioche luci delle fiammelle danzavano sulle pareti di pietra. Le voci dei fedeli si univano in un mormorio di preghiere rivolte al loro Dio, creando un’atmosfera quasi mistica.
All’improvviso, quel clima di devozione fu bruscamente interrotto da un fragore improvviso di legno e metallo che si spezzava violentemente. Un boato assordante squarciò il sacro silenzio, mentre la porta veniva letteralmente sfondata dalle terribili lame delle asce dei soldati romani.
Un vento gelido e tagliente come una lama si insinuò attraverso l’ampia breccia, facendo vacillare le fiammelle tremolanti del focolare. L’oscurità e il gelo penetrarono nell’umile dimora come presagi di morte, mettendo a nudo la fragilità di quel rifugio.
All’improvviso, lame affilate si levarono minacciose sopra le teste dei fedeli inermi, riflettendo impietosamente i bagliori del fuoco. Urla di terrore e angoscia si levarono strazianti, soffocando le ultime preghiere che solo un istante prima echeggiavano tra quelle mura.
I soldati entrarono con passo deciso, i loro stivali rimbombarono sul pavimento come i rintocchi funesti di un’inesorabile condanna. Sguardi sgranati, disorientati e colmi di terrore si voltarono verso i centurioni che già setacciavano spietatamente la folla di fedeli, squadrandoli come predatori in cerca delle loro vittime.
L’orrore si dipinse sui volti dei presenti, mentre le mani, un istante prima giunte in preghiera, si mossero a coprire bocche spalancate in muti rantoli di panico. Come a voler sfuggire, negando con gli occhi serrati l’atroce realtà che si manifestava di fronte a loro. La possibilità di fuga era ormai preclusa, ogni via d’uscita sembrava sigillata.
Alcuni tentarono di nascondersi dietro le panche o a rannicchiarsi negli angoli bui, sperando di non essere notati, mentre altri rimasero impietriti, incapaci di muoversi per lo shock e il terrore cieco che attanagliava le loro membra.
Costretti con le spalle al muro o inginocchiati in un ultimo gesto di preghiera, furono presto circondati da un gruppo di soldati romani. La loro presenza, imponente e minacciosa, segnava un momento di svolta drammatica nella serata fino a quel momento consacrata alla fede e alla comunione spirituale.
In quel momento di puro caos e terrore, la madre, stringendo convulsamente a sé il figlio più piccolo celato sotto le pieghe della veste, lo trascinò di corsa verso la stretta apertura da cui erano entrati.
Con un gesto di disperata tenerezza, quasi soffocata dal panico, lo fece inginocchiare davanti a lei. Poi, adottando per un fugace istante un atteggiamento di preghiera, gli sussurrò con voce roca e carica dell’urgenza di quel tremendo frangente: «Presto, figlio mio, scappa! Esci da qui immediatamente e corri più veloce che puoi.»
Le parole le si strozzarono in gola mentre un urlo lacerava l’aria alle sue spalle. Con un guizzo improvviso, strattonò il piccolo per il braccio, il viso una maschera di puro orrore. «Va’ dal vescovo, digli che abbiamo bisogno di lui e che ci deve benedire subito, o per noi sarà la fine...» trasse un respiro affannoso, mentre lacrime ardenti iniziavano a solcarle le gote.
«Digli che siamo stati scoperti... dei soldati sono qui e ci stanno per fare del male... per amor di Dio corri, figlio mio, corri!”
Con quello schianto di disperazione nella voce, spinse con foga il bimbo tremante verso l’uscita, un’ultima carezza affinché fuggisse al più presto da quell’antro d’orrore.
Il bambino, con gli occhi ancora lucidi per le lacrime, ma con una nuova determinazione scaturita dalle parole della madre, si asciugò il viso con un gesto rapido. Senza proferire parola, annuì silenziosamente alla madre e, con un’agilità sorprendente, si infilò fuori dalla stretta apertura e si dileguò nella notte.
La madre alzò gli occhi al cielo, come in una muta, disperata implorazione verso l’alto mentre il suo cuore veniva stretto da un’angoscia atroce per la sorte del suo bambino, ormai solo e indifeso nell’oscurità della notte. Il terrore che le gelava il sangue nelle vene era pari solo alla sua disperazione di madre, eppure un tenue filo di speranza ancora ardeva in quel tremendo frangente.
Sperava con tutte le sue forze che le sue ultime, strazianti parole di preghiera fossero state sufficienti ad essere ascoltate dal Signore, affinché il figlio trovasse grazia e protezione, una mano misericordiosa che lo conducesse lontano da quel tremendo pericolo imminente.
Quel breve istante di raccoglimento fu infranto da un nuovo urlo di agonia che le torse le viscere. Con uno sforzo sovrumano, la madre distolse lo sguardo dal cielo e fece nuovamente fronte ai soldati romani, il cuore a pezzi ma l’animo indomito nel suo ruolo di protettrice. Era pronta a difendere la sua fede e i suoi cari fino all’ultimo, estremo respiro contro quella furia omicida, senza tradire ciò in cui credeva.
L’intensità emotiva di quella scena era straziante, le energie della donna divise tra la disperazione di madre e la fermezza di martire. Eppure, la sua figura si ergeva come un fiero, estremo baluardo contro l’orrore che avanzava inesorabile.

Capitolo 2. Il vescovo

L’oscurità avvolgeva la via Appia in un mantello impenetrabile, solo il suono dei passi frettolosi di Isaia, il bambino in fuga, ruppe il silenzio sacrale, echeggiando tra i grandi basoli di selce consumati da secoli di passaggio di carri e calpestii. Raggiunto un piccolo accesso abilmente dissimulato tra le antiche mura che delimitavano la strada, Isaia vi si infilò con l’agilità di un gatto, scomparendo nella voragine oscura che lo accolse con un buio ancor più denso. Un fremito di paura gli percorse la schiena, ma fu la determinazione a spingerlo oltre, a fargli affrontare l’oscurità avvolgente.
In un silenzio così profondo da sembrare irreale, Isaia avanzò lungo gli stretti cunicoli sotterranei, la sua strada appena illuminata dalle tremule fiamme di rare lampade ad olio, poste a intervalli lungo il percorso. Le pareti, grezze e umide al tatto, erano decorate con graffiti, simboli cristiani e affreschi che, emergendo dalla penombra, sembravano sussurrare al ragazzo storie di martiri e fedi incrollabili. Ogni passo sul pavimento di terra battuta cosparso di polvere e ciottoli sembrava risvegliare le voci degli antichi fedeli, invitandolo a non arrestare il suo cammino.
I cunicoli si dipanavano in un intricato labirinto, un dedalo carico di mistero e fascino. Isaia, ormai familiare con quel percorso, superava agilmente gli ostacoli, mosso da un impulso che lo guidava verso la sua destinazione. Il suo cuore palpitava nel petto, una melodia di coraggio e urgenza.
Dopo un lungo percorso, una luce soffusa rivelò l’ingresso di una cripta. Con passi misurati e il fiato sospeso, Isaia si avvicinò, trovando al suo interno un uomo anziano, vestito con abiti sacerdotali, immerso nella preghiera. La sua presenza irradiava una pace e serenità quasi tangibili, un contrasto stridente con l’ansia che tormentava il cuore del bambino.
Isaia, per un istante, rimase immobile, catturato dall’aura sacrale che avvolgeva il vescovo. Tuttavia, la gravità della sua missione gli diede la forza di interrompere quel momento di raccoglimento: «Vescovo, vescovo, alla chiesa sono arrivati i soldati e vogliono fare del male alla mamma e al papà, e … insomma, vogliono fare del male a tutti. Mamma ha detto che dobbiamo essere benedetti subito, altrimenti...» Le parole dette dal bambino, in modo agitato e tra un respiro affannoso e l’altro, furono un colpo al cuore per il vecchio sacerdote, che si alzò prontamente.
«Dove, figlio mio? Di quale chiesa parli?» S’inginocchiò di fronte a Isaia, stringendogli delicatamente le spalle.
«Non lo so come si chiama...» singhiozzò il piccolo con gli occhi arrossati dalle lacrime amare. «Non ci eravamo mai andati prima. È... è dove c’è la taverna.»
«La casa di San Clemente?» indagò il vescovo, cogliendo uno spiraglio di speranza in quelle parole confuse.
«Sì, sì vescovo, quella lì!» Isaia annuì freneticamente, mentre nuove lacrime colavano calde a rigargli le gote arrossate.
Il vescovo si avvicinò al muro della cripta, una superficie viva di storia, colma di iscrizioni in latino che si estendevano indietro fino a tempi immemorabili. Le pareti erano un palimpsesto di secoli di fede, con richieste di benedizioni e suppliche al Signore: incise, dipinte o tracciate con pigmenti vari. Mani di sacerdoti devoti, nel corso dei secoli, avevano lasciato lì le loro orazioni, creando un tessuto connettivo di preghiera e richieste di benedizione.
Con mani che tremavano per l’emozione e l’urgenza del momento, il vescovo afferrò una pietra appuntita e incise un nuovo messaggio tra quelle antiche suppliche: “O Domine, benedic fratribus sororibusque qui in hoc momento in domo Sancti Clementis tibi dedicata orant. Protege eos ab aggressoribus. Utere sacro igne fidei eorum ad malum quod super eos impendere stat destruendum. Amen.” - “O Signore, benedici i fratelli e le sorelle che in questo momento si trovano in preghiera nella casa di San Clemente a Te dedicata. Proteggili dagli assalitori. Usa il sacro fuoco della loro fede per distruggere il male che sta per abbattersi su di loro. Amen.”
Terminata l’iscrizione, il vescovo si prostrò in ginocchio, immergendosi in un profondo momento di preghiera. Rimase così per diversi minuti, in un silenzio così sacro che ogni suono sembrava svanire nella cripta. I suoi occhi erano serrati, e le mani, saldamente giunte, erano il simbolo di una devozione che superava le parole. Le labbra del sacerdote si muovevano in silenzio, come se stesse impartendo una benedizione troppo sacra per essere ascoltata dai profani.
Dopo aver dedicato quel tempo al Signore, lentamente, il vescovo si rialzò. Con un gesto pieno di amore e protezione, posò delicatamente una mano sulla testa di Isaia, guardandolo con occhi che trasmettevano speranza e rassicurazione. «Vai, figliolo. Torna dalla tua famiglia. Tua madre, tuo padre e i tuoi fratelli ti stanno aspettando, al sicuro e in salute», disse con voce ferma e gentile, come se trasmettesse una certezza che andava oltre la semplice fede, una promessa che il destino, per quanto oscuro possa apparire, nasconde sempre una luce di speranza.


Capitolo 3. Il miracolo

Il chiarore tremolante delle lampade ad olio proiettava le ombre dei fedeli sulle pareti grezze della misera chiesa, dove la disperazione si univa alla preghiera. All’interno di quel rifugio, il tempo si era fermato, sospendendo ogni respiro nell’attesa del loro destino. Una figura imponente si stagliava all’ingresso come un presagio di morte. La sua voce tuonò, ponendo fine al rumore causato da preghiere e lamenti. Riportando il silenzio in quella chiesa improvvisata: «Chi di voi si fa chiamare Fabius il diacono?» disse il centurione, afferrando bruscamente per la tunica un fedele che era inginocchiato davanti a lui, sollevandolo di peso per poi puntargli minacciosamente il gladio contro il petto, proprio all’altezza del cuore.
«Sono io», risuonò una voce ferma dal fondo della stanza. Un uomo, che indossava una semplice tunica di lana grezza, bordata con simboli cristiani discretamente tessuti lungo l’orlo, si alzò con dignità dalla sua posizione di preghiera e avanzò verso il soldato. La tunica, segno del suo servizio e dedizione, contrastava con l’armatura lucida e minacciosa dei soldati romani. Mentre camminava, il suo viso era sereno, quasi rassegnato, ma nei suoi occhi brillava una luce di sfida.
Il centurione, lasciando cadere a terra l’uomo che aveva appena minacciato, fissò l’avanzare del diacono con disprezzo. Quando Fabius fu a pochi passi da lui, il centurione, con un gesto rapido e brutale, lo colpì al volto con l’elmo che teneva sotto il braccio. L’impatto fu violento e diretto, tanto che il diacono crollò a terra con il volto segnato da una ferita grondante di sangue che gli attraversava la guancia.
Rialzando lo sguardo, il centurione si rivolse ai suoi soldati con un tono di comando: «Passate a fil di spada tutti questi bastardi. Nessuno di loro deve rimanere vivo. Donne e bambini compresi», ordinò senza esitazione. La sua voce, priva di ogni emozione, riecheggiava minacciosa nell’aria. Gli occhi dei fedeli presenti si allargarono per il terrore, mentre cercavano disperatamente una via di fuga o un barlume di speranza in quella situazione disperata. La stanza, un tempo luogo di preghiera e comunione, si trasformò all’improvviso in un teatro di imminente tragedia.
Tra i soldati che avevano ricevuto l’ordine spietato, due avanzarono senza esitazione, le lame delle loro spade sfavillavano di un freddo bagliore al chiaro delle lampade, pronti a eseguire senza indugi la volontà del loro centurione. Ma il terzo, un giovane guerriero il cui sguardo era un tumulto di emozioni contrastanti, rimase paralizzato sul posto. I suoi occhi, spalancati di fronte all’imminente massacro, tradivano un orrore profondo per l’azione che stava per compiersi, una scena di violenza che minacciava di infrangere ogni residuo di umanità dentro di lui.
Nonostante fosse solo, in balia di una morsa di paura che avrebbe potuto facilmente stritolarlo, il giovane soldato trovò in sé una forza insospettata, un coraggio che fino a quel momento aveva solo intravisto nei racconti di eroi e martiri. Con un grido che era un misto di disperazione e sfida, si scagliò davanti ai suoi compagni d’armi, ergendosi a difesa dei fedeli indifesi.
L’ordine dell’impero lo aveva costretto a marciare al fianco del suo comandante, ma nel profondo del suo cuore, una scintilla di fede aveva iniziato a brillare, alimentata dal coraggio e dalla determinazione di quelle anime raccolte in preghiera. Quel richiamo al sacrificio, quel desiderio ardente di proteggere i suoi nuovi fratelli, si rivelò una forza irresistibile. Era disposto a pagare il prezzo più alto, consapevole che solo attraverso il sacrificio della propria vita avrebbe potuto onorare i valori di amore, comunione e fratellanza che aveva imparato a rispettare e amare. In quel momento cruciale, la sua scelta divenne il ponte tra due mondi, una testimonianza vivente del potere trasformativo della fede.
In quel momento cruciale, la stanza fu avvolta da un’atmosfera carica di un’energia mistica e insondabile. I due soldati, così come il loro comandante, furono colti da un impulso misterioso e incomprensibile: le loro armi scivolarono dalle mani come se la volontà di tenerle fosse stata improvvisamente sottratta e, con un gesto che sfidava ogni logica bellica, si inginocchiarono, portando le mani al volto in un gesto di supplica, emulando la postura di un fedele immerso nella preghiera.
Gli occhi di chi assisteva a questa scena, inclusi quelli del terzo soldato, erano spalancati, increduli di fronte al miracolo che si stava svolgendo davanti a loro. La loro meraviglia si tramutò in sgomento quando dalle bocche dei tre militari si levarono grida strazianti che fendettero l’aria, un suono così carico di disperazione da fare trasalire tutti i presenti. Un bagliore sinistro iniziò a emanare dai corpi dei tre uomini, diffondendosi nella stanza e tingendo ogni superficie di un’aura inquietante.
Il terzo soldato, testimone di quella trasformazione apocalittica, sentì il proprio stomaco contorcersi nella morsa della paura. I suoi commilitoni, un tempo simboli di forza e potere, ora erano avvolti dalle fiamme, trasformandosi in una visione infernale di cenere e carne consumata dal fuoco.
Un odore acre e soffocante invase l’ambiente, rendendo l’aria pesante e difficile da respirare, mentre quello che rimaneva dei tre corpi erano ora solo macabre sculture di cenere e carne bruciata. Le loro membra erano ridotte a frammenti ossei contorti e anneriti. I volti, un’orrenda maschera di dolore, con le orbite vuote e le bocche spalancate in un urlo silenzioso.
I fedeli, colti da terrore e stupore, rimasero immobili, incapaci di compiere qualsiasi gesto o di emettere il minimo suono. Erano testimoni di un evento tanto misterioso quanto inesorabile, una manifestazione di forze che superavano la loro comprensione, un segno tangibile che, in quel luogo sacro, qualcosa di trascendentale stava intervenendo nella realtà materiale. La scena che si era appena consumata davanti ai loro occhi avrebbe segnato per sempre le loro anime, un ricordo indelebile della sottile linea che divide il mondo visibile da quello invisibile, testimoniando la potenza e il mistero che avvolge la vera fede.